Durata
22 settembre - 28 ottobre 2017

Altre mostre

con un testo di Marco Enrico Giacomelli
 

Il fantasma della nostalgia

Ho conosciuto Gabriele Arruzzo nel 2003. Esponeva in una collettiva curata da Luca Beatrice e Guido Curto, intitolata Almeno 16 minuti (qualcosa di più dell’effimera celebrità profetizzata da Andy Warhol) e allestita alla Galleria Art & Arts, che ebbe vita assai breve. Lui presentava un’opera ispirata al trittico Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion (1944 ca.) e, avendo io discusso una tesi su Francis Bacon pochi anni prima, catturò la mia attenzione. Ne parlammo a lungo, in strada.

Non sono state molte le occasioni d’incontro negli anni seguenti, ma ci siamo seguiti vicendevolmente con una certa costanza. Ciò che mi interessava, e che mi continua a interessare, è la tenacia con la quale Arruzzo ha proseguito nella sua ricerca – intendo la pittura, i temi a lui cari, le sue maniacalità tecniche e lo studio minuzioso dei soggetti. Mi affascina questo suo anacronismo, l’amore infinito per Piero della Francesca che l’ha condotto a insegnare all’Accademia di Urbino – con risultati encomiabili: ho avuto modo di tastare con mano la devozione con la quale i suoi studenti lo seguono; un anacronismo al quadrato nel panorama più glamour dell’arte italiana, dove essere pittore non aiuta, e dove essere un pittore colto aiuta ancor meno.

Se qualcuno nutrisse dei dubbi in merito, dovrebbe procurarsi il piccolo ma prezioso catalogo della sua precedente mostra personale, tenutasi nel 2015 a Milano, alla Galleria Giuseppe Pero: vi troverà, oltre a un bel testo di Alberto Zanchetta, molte pagine riprodotte e sottolineate di volumi dalla natura assai diversa l’uno dall’altro – su Piero e Dürer e Malevič, ma anche testi di antropologia e critica d’arte, teologia e storia. Il tutto precipita chimicamente in un ciclo di lavori, raccolti sotto il titolo Apocalisse con figure, che di cotanti riferimenti teorici possono fare tranquillamente a meno.

Questo significa, a mio parere, fare della buona pittura, della buona arte: costruire fondamenta solide e renderne in-essenziale la conoscenza. Va da sé che tale inessenzialità non preclude la possibilità di esplorare quelle fondamenta, per tentare di sciogliere – o almeno di contemplare con maggior cognizione di causa – quelli che Ivan Quaroni ha efficacemente chiamato “ossimori visivi”, riferendosi ai dipinti di Arruzzo (in Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura, Johan and Levi, Milano 2007, p. 24). È ancora, questo, un indizio della bontà della sua pratica: le pitture parlano da sé e di sé, producono effetti stranianti sulla percezione – visiva anzitutto, e può senz’altro bastare; ma anche intellettuale – e allora si può aprire un dialogo con esse, e si può avere il desiderio di imparare la lingua in grado di imbastire una comunicazione almeno virtualmente a doppio senso, tentare di non ascoltare soltanto l’opera ma di risponderle. È il famoso e talora famigerato doppio livello di lettura, che non va assolutamente inteso come una graduatoria di merito.

Tutto questo vale anche per il nuovo ciclo di opere, intitolato Arcadia. Due anni di lavoro che hanno realmente assorbito – mi si creda sulla parola – l’artista, due anni durante i quali Arruzzo ha rivoluzionato il proprio modo di procedere e produrre. Certo, in un’opera come la sua, le rivoluzioni non sono mai copernicane, non sono plateali, ma questo non significa che siano prive di conseguenze. Il lavoro è stato compiuto in solitaria, senza l’ausilio di assistenti; il metodo compositivo stesso è mutato: mentre prima era chiaro sin dall’inizio il progetto generale, che veniva realizzato su tela disegnando i contorni e poi riempendoli di colore, ora l’artista ha proceduto con minore premeditazione, navigando a vista di tela in tela, e rendendo più indipendente le variabili disegno/colore.

Il risultato è sotto i vostri occhi e, se anche minimamente ricordate gli esiti del 2015, noterete una differenza sostanziale: la staticità dei dipinti precedenti ha ceduto il passo a una mobilità inaudita, e ciò grazie a una sorta di base astratta, “ridefinita a servizio del pretesto figurativo”, come racconta lo stesso artista (l’esempio più evidente è rappresentato da senza titolo (contadinella)).

Questo per quanto riguarda la tecnica. Per ciò che concerne i temi, assistiamo a un’altra inversione di rotta. Se in Apocalisse con figure l’attenzione di Arruzzo era rivolta alle drammatiche tensioni geopolitiche in corso sul nostro pianeta, ora quel pur mediato riferimento all’attualità scompare. O meglio, si inabissa. È un ritorno ai fondamentali, che mi pare in linea con le scelte curatoriali effettuate da Christine Macel nel corso dell’ultima edizione della Biennale di Venezia. Arruzzo sceglie però di essere radicale in questo ritorno: radicalità che sta nel titolo Arcadia e in una profusione di topoi, di figure retorico-pittoriche stereotipate – il pittore al lavoro en plein air (quasi inutile sottolineare le eco paoliniane), il pittore e la modella, il pastorello e la pastorella, la contadinella e finanche il gattino.

Definitivo acquietarsi di quell’ossimoro visivo di cui parlava Quaroni? Tutt’altro, in realtà. Perché le tinte fosche riemergono, ora con durezza (a season in limbo (in me la notte non finisce mai)) ora con più sottile carica perturbante (le piramidi dai colori acidi che spuntano tra le frasche in senza titolo (pastorella) e senza titolo (pastorello) sono colossali indizi di Un-heimlichkeit, di qualcosa che perturba la familiarità del contesto e della scena).

Qui risiede dunque la linea di continuità che permette di assegnare le novità di Arcadia nella traccia coerente dell’opera di Arruzzo: la nostalgia che parla attraverso i temi bucolici è un nostos, un ritorno funestato dal fatto che la meta, la meta familiare e rassicurante, non è mai esistita. “La grande pittura paesaggistica inglese si afferma in un periodo in cui la nebbia mista al fumo delle ciminiere della Londra di Dickens la si poteva quasi tagliare con il coltello”, racconta lucidamente l’artista. Cosa c’è di più Unheimlich di una familiarità turbata da un piccolo ma eloquente errore di sistema, se non il carattere fantasmatico della casa in cui quella familiarità avrebbe avuto luogo?

Intanto, in giardino dorato (osservarsi osservando), il paesaggio vira al rosso, la modella distoglie lo sguardo e le traiettorie di volo di foglie e uccelli assumono forma di tag.

Marco Enrico Giacomelli