testo di Luigi Fassi

Durata
12 aprile - 26 maggio 2007

Altre mostre

«Credo che ciò che un libro fa a chi lo legge è: ristrutturare la percezione. I libri ristrutturano la percezione del tempo, la percezione del paesaggio, la percezione delle persone, la percezione dello spazio urbano, la percezione degli spostamenti, la percezione della nostra mortalità, la percezione delle istituzioni, la percezione della lingua e così via. Noi che scriviamo lavoriamo, se così si può dire, sulle forme dei sensi dei nostri lettori. […] Così mi vien da dire, a rischio di essere ridicolo: Italiani, vi esorto alle descrizioni». 

Con queste parole Giulio Mozzi (G. Mozzi-D.Voltolini, Sotto i cieli d'Italia, Sironi, 2004), invitava recentemente gli scrittori e gli artisti italiani ad un rinnovato impegno descrittivo nei confronti del proprio pubblico, ad un recupero della scrittura come descrizione, per raccontare le trasformazioni e i mutamenti del paesaggio a chi quotidianamente li vive, e magari li subisce, senza avere la possibilità e gli strumenti critici per registrarli. La descrizione intesa in questo modo è anzitutto un fatto etico, ancor prima che cognitivo, è la necessità di essere testimoni del presente, prendendosi cura del proprio tempo.

Il lavoro di Laura Pugno è perfettamente inserito in questo solco esperienziale, e la sua opera sembra una risposta esemplare all'appello di Giulio Mozzi. Per diversi mesi l'artista si è recata con assiduità sui luoghi teatro delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006, presso i comuni della Val di Susa, attraversati da un'incredibile trasformazione morfologica atta a fare spazio a trampolini di salto, piste, tribune e altre gigantesche strutture. Pugno ha realizzato un documento di viaggio, in chiave pittorica, di questi scenari mutevoli, un resoconto preciso e silenzioso votato all'ascolto e all'osservazione. Quanto più mastodontici e traumatici appaiono i rivolgimenti cui è sottoposto il territorio montano della Val di Susa, tanto più l'artista ha scelto la via di una figurazione sussurrata, delicatamente fragile e liquida, quasi un ossimoro visivo, una provocazione concettuale di fronte a interventi edilizi tanto invasivi. Tra i panorami raffigurati e la loro resa pittorica non si frappone però alcun paradigma interpretativo, se non quello sottilmente insinuante ed elegiaco della memoria. Le tele sono il frutto di lunghi mesi di ascolto del territorio e di registrazione dei suoi mutamenti, quando tutti i siti olimpici erano ancora in corso d'opera, scenari destinati a mutare giorno dopo giorno. La tessitura pittorica dell'artista restituisce così istantanee di luoghi ormai sensibilmente diversi da come li potremmo vedere oggi dal vivo. Ormai i lunghi tubi rossi non poggiano più sul declivio di fronte agli alberi, le transenne hanno esaurito la loro funzione, e altri ettari di prato hanno lasciato spazio alla terra di preparazione delle piste. Quello che l'artista ci consegna con la sua pittura è dunque un limite in divenire, una traccia esile, ma proprio per questo maggiormente incisiva, di scenari che già non esistono più.
Questa ambiguità della memoria, questa soglia fragile tra ciò che è stato è ciò che sarà, colta attraverso l'analisi del presente, è la vera provocazione di Laura Pugno ed è riscontrabile anche nel suo nuovo ciclo pittorico KWh (2007) pur con un sensibile scarto rispetto ai lavori precedenti. Non più infatti l'esperienza diretta di confronto con un territorio autenticamente vissuto e frequentato nel corso delle sue radicali trasformazioni, ma il racconto per immagini di alcuni tra i più grandi e invasivi manufatti mai realizzati dall'uomo all'interno del paesaggio naturale: le dighe. Scovate e osservate dall'artista tramite le mappe e le cartografie satellitari di Google Earth, le dighe sono distorsioni irreversibili dei territori montani, alcuni decenni fa colossali muri verticali di cemento e calcestruzzo, oggi interventi più livellati con l'ambiente ma non meno gravidi di mutamenti e anomalie. Pugno ridisegna con tautologica precisione le sagome, le fogge e i perimetri della dighe, registrando l'esatta collocazione planimetrica di ciascuna, così come codificata dai paralleli e dai meridiani terrestri. A tanta acribia catalografica si accompagna una resa pittorica quasi astratta dei paesaggi e delle acque, spesso irriconoscibili per colori e prospettive. È come se venisse evidenziata in tal modo la qualità artificiale di scenari naturali rimodellati per sempre, piegati alle esigenze energetiche umane.
Da dove viene l'energia? Quali mutamenti e sconvolgimenti territoriali accompagnano la produzione della corrente elettrica perché essa giunga nelle abitazioni di tutti? Su queste domande primarie, che attraversano la nuova ricerca dell'artista, riflette anche la scultura costruita per aggregazione di organi di collegamento elettrici, Presa di posizione (2007). Come una proliferazione vegetale incontrollata, in piena espansione spaziale, questa muta e interrogativa molteplicità di spine domestiche porta a ironica illuminazione una sola lampadina, sintesi lucida dei problemi e delle contraddizioni legate alle necessità energetiche della Terra. Medesimo interrogazione, in chiave più sinistra e misteriosa, è riscontrabile in Energia oscura (2006), installazione-ombra su una delle facciate dell'Accademia Albertina a Torino. Come una forma inespressa o un dubbio irrisolto, la sagoma di un generatore eolico segnala una possibilità alternativa, in larga misura ancora estranea alla realtà italiana.
Ma è in Wind farm (2007), rappresentazione compiuta dell'unità armonica tra lavoro umano e ambiente naturale, mediante l'uso di energie rinnovabili, che l'artista sembra offrire una chiara risposta. Non c'è infatti alcuna condanna, al fondo dell'opera di Laura Pugno, bensì un'ambizione antica, quella di poter tornare al paesaggio, inteso come sintesi sostenibile di elementi opposti, quali natura e cultura, abitazioni e boschi, monti e pianure.

«Era il posto dov'era nato; era nato da questa terra e in questa terra avrebbero riposato le sue ossa - le colline come una culla per la valle del fiume -, le colline sul cui margine si stendeva la piantagione dove era nato. La Grande Foresta, la Grande Piana; la foresta ormai scomparsa dai luoghi dove l'aveva incontrata per la prima volta; il punto dove lui e Sam stavano quando lui sentì per la prima volta correre i segugi e armò i cani del fucile e vide il suo primo cervo, adesso era dieci metri sotto la superficie di una diga costruita dal governo per il controllo delle alluvioni, e il fondo di questa diga si alzava tutti gli anni, lento e inesorabile, a forza di lattine di birra e tappi di bottiglia e piombi da pesce persico; la foresta, la Grande Foresta stessa spostata a spintoni sempre più lontano nello stesso inesorabile modo […]. Non mi stupisce che la foresta devastata che io conoscevo non gridi vendetta. Perché sarà proprio la gente che l'ha distrutta che porterà a compimento la sua vendetta».
(William Faulkner, La Grande Foresta, 1955, trad. it. Adelphi 2002)